C’è una fiaba che si incunea con discrezione, quasi inosservata come tutte le fiabe, nel racconto di Marita Rosa. Parla della ricamatrice che si mette a ricamare i sogni dei bambini per non perderli “e quei sogni, una volta ricamati, tornavano ai bambini che erano felici di ritrovarli”. È suggerita quasi come fosse una digressione, ma definisce le coordinate di questo breve romanzo autobiografico omaggio dichiarato a uno zio, a una nonna e attraverso loro a una generazione che si è persa nelle steppe russe in quella funesta campagna militare.
Sì, perché il racconto muove i suoi passi leggeri sul crinale tra costruzione narrativa e fatti reali, tra le vite di semplici persone e la storia che le travolge. Si mantiene in perfetto equilibrio su questa linea di confine lasciando che i due versanti si compenetrino, sappiano trovare le parole giuste per parlare, perché, si sa, il confine è luogo di incontro.
Così la drammaticità della storia si stempera nelle parole della bambina che la racconta. Non sottovalutiamo le prime pagine quando la bimba gioca con le lettere dell’alfabeto, le filastrocche, gli indovinelli o semplicemente registra i proverbi in piemontese, lingua che “regala colori e suoni”. La parola dà voce alla memoria, altrimenti inaridita nell’animo dell’individuo. Lo si capirà alla fine, per ora i ricordi affiorano spontanei tra gesti quotidiani di persone. Si fissano come i punti della ricamatrice. Dolcemente si rinnovano nella mente della bambina che sta crescendo.
Non è l’autrice che va a cercare la Storia, ma è la Storia che si intrufola e scandisce il tempo che passa. Si comincia con una data precisa: 29 dicembre 1942, partenza della tradotta. Poi ecco altri riferimenti: la morte del Papa, quella di Coppi, la contestazione studentesca, l’omicidio Moro. Mettono i paletti affinché il racconto non rischi di apparire solo una piccola saga familiare.
Al centro c’è l’assenza ingombrante dello zio Nale che la guerra ha rapito a tradimento alla mamma. Poi c’è nonna Maria, la mamma, che con dignitosa fermezza erge il suo “Zio Nale non è morto, è disperso”. In queste parole c’è la forza di una donna che poco dopo confessa “per vivere devo sperare che torni a casa”.
La sua morte lascia alla nipote l’eredità del ricordare. Prima c’era nonna Maria, ora c’è la giovane che allora amava conversare con la nonna e adesso prepara la sua tesi, poi comincia a insegnare, diventa lei stessa nonna, ma non dimentica il suo compito di ricordare. Un percorso di crescita, di consapevolezza: la bambina che ieri faceva tante domande alla nonna, ora sta in silenzio. Ascolta. Accoglie i ricordi. Li mette in fila, perché la memoria è fragile ha bisogno di trovare le parole per sopravvivere ed essere feconda tra le giovani generazioni.
Dove c’era la ferita
di Marita Rosa
Primalpe
13 euro