Cuneo – Con l’operazione “Family affairs” (affari di famiglia) , la Squadra Mobile della Questura di Cuneo aveva interrotto la serie di furti messi in atto da un intero clan familiare del cuneese, ai danni di persone anziane e sole, avvicinate dai membri della famiglia che giravano a coppie fingendosi addetti delle aziende di acqua e gas per controlli. Una volta all’interno delle case, mentre uno distraeva la vittima, approfittavano per rubare tutto quello che trovavano. Una ventina i colpi messi a segno nel periodo tra aprile e luglio 2020 e dieci gli ordini di custodia cautelare emessi dal tribunale di Cuneo (sei persone erano finite in carcere e quattro ai domiciliari), nell’ambito del sequestro che ha coinvolto un centinaio di agenti provenienti da tutto il Piemonte e che ha portato al sequestro di contanti, orologi di valore, oro e preziosi; una piccola parte della refurtiva che gli inquirenti avevano stimato nell’ordine dei 300.000 euro (nella foto, una parte del bottino dei colpi). A finire in manette erano stati i membri della famiglia Barovero, residenti a Cerialdo, Carmagnola, Asti eVolvera, con i genitori Osvaldo e Alfrida, le quattro figlie Selica, Angela, Claudia e Glenda oltre a Romano Debar, Giacomo Bresciani e il figlio della coppia Gianni, che a differenza di tutti gli altri imputati (che hanno scelto il patteggiamento) ha deciso di sottoporsi al giudizio ordinario in cui gli sono contestati il furto in concorso e l’associazione a delinquere. Nell’udienza che si è svolta al tribunale di Cuneo sono stati ripercorsi l’inizio delle indagini, una sparatoria all’interno del campo nomadi del Cerialdo, in seguito alla quale erano state disposte le intercettazioni dei membri della famiglia Barovero. Da queste è emersa l’attività della famiglia, con trasferte in tutta la provincia di Cuneo e non solo: Busca, Casalgrasso, Barge, ma anche case nel torinese, nella provincia di Asti e in Valle d’Aosta. “Per indicare che stavano per andare a rubare – ha riferito il teste della Questura – dicevano in piemontese ‘anduma a mangè o ‘anduma a vendi il fer’”. Gianni non andava personalmente a rubare ma secondo gli inquirenti era lui che si occupava di rivendere la merce rubata. “In quasi tutte le attività criminali – ha riferito il teste – Gianni telefonava alla mamma o al papà e si recava a casa loro. In una telefonata di luglio, dopo essere stato a casa dai genitori, Gianni viene ascoltato mentre parla con un orefice di Cuneo, dicendo che vuole assolutamente vederlo perché ha qualcosa da fargli vedere. Ad un altro gioielliere aveva detto di aver comprato degli orologi Rolex e di avere assolutamente bisogno di venderli”. Il processo proseguirà il 4 febbraio.