Siamo una collettività traumatizzata. Un numero consistente di cittadini ha un legame personale con le famiglie coinvolte nell’incidente dell’Alpe Chaslar. In più Castelmagno, insieme a Sant’Anna di Vinadio, è uno dei simboli dell’estate cuneese: le passeggiate sui sentieri, una preghiera al Santuario, le notti stellate, il ritrovo con gli amici. E questo è stato l’altra notte l’inizio di una tragedia: i significati si sono ribaltati, le cose prima buone ora sono diventate fonte di angoscia. “Quello che era, sin da bambina, il mio rifugio sicuro, il posto del riposo e della gioia di ritrovare gli amici è diventato la terra dell’orrore”…
Nel trauma collettivo ci sono centri concentrici di vulnerabilità: le vittime, i loro familiari, poi i soccorritori e intorno tutti coloro che in qualche modo si sentono scossi.
Ognuno è costretto, seppur con intensità diversa, a fare i conti con il dolore che dilaga, la sensazione di morte che ingiustamente sottrae la vita e il tentativo di capire, trovare un senso.
In questa vigilia di ferragosto si affollano le domande sul perché e il tentativo a volte maldestro di trovare spiegazioni per arginare l’angoscia che serpeggia e per provare a controllare ciò che controllabile non è. La vita è imprevedibile. In un attimo il nostro panorama affettivo, i nostri riferimenti futuri e lo scenario esistenziale si ribaltano.
La prima reazione è di shock e sconcerto, a volte anche di negazione: non è possibile, mi sembra un coma o un incubo dal quale prima o poi mi sveglierò. E subito dopo arriva la ribellione: non lo posso accettare, la mia mente rifiuta quel che è successo, voglio girare indietro di un giorno il libro della vita. E’ inaccettabile razionalmente e mal tollerabile emotivamente la fine di chiunque, ma sopratutto di ragazzi giovani con la propria storia ancora da scrivere.
In queste ore ho sentito bisogno di silenzio, di stare in me per racchiudere il vortice di sensazioni e di domande che hanno segnato queste ore accanto a chi è nel centro più interno del trauma. Ho rispolverato il saggio sul silenzio di Erling Kagge, l’esploratore del Polo Nord. Appassionato di meditazione dice: “forse rimango in silenzio perchè mi rendo conto che non passa giorno senza che io venga separato da qualcosa”. Forse è proprio questo il nocciolo della possibilità di elaborazione: fare i conti con la perdita che inevitabile accompagna i nostri giorni. Nulla ci appartiene per sempre e nulla rientra nella nostra possibilità di controllo.
Possiamo fare “manutenzione” alle nostre relazioni, accudire i nostri affetti, coltivare i nostri talenti ma non abbiamo garanzie che il nostro operato difenda in modo assoluto ciò a cui teniamo. Possiamo imparare a nutrirci di quanto attraversa per un periodo più o meno lungo la nostra vita senza illuderci che sia per sempre. E’ fonte di entusiasmo, vitalità e leggerezza poter credere che ciò che abbiamo costruito e le persone a cui ci siamo legati sia definitivo, ma è buona cosa cercare di mantenere sveglia la consapevolezza che nulla è per sempre. E’ una consapevolezza a volte amara, ma che ci aiuta a fare i conti con l’impermanenza.
E poi abbiamo bisogno di risalire e sperare di nuovo, di rituffarci nello scorrere dei giorni. Ogni ferita individuale e ogni trauma collettivo (e quest’anno avevamo già attraversato il dolore del Covid) non si dimenticano, lasciano delle tracce ma possono essere una scala per riiniziare. “ Se vuoi venirne fuori devi passarci nel mezzo” recita Robert Frost: per ripartire bisogna stare nell’esperienza, senza dover scappare. Stare nell’assurdo, contemplare le domande senza risposta, anche con uno sguardo esistenziale o spirituale per chi se lo sente scaturire dentro. E attendere. A volte il respiro si sblocca e questo è la prima fonte di sollievo.
Chandra Candiani, nel libro Il silenzio è cosa viva scritto per affrontare un lutto importante, dà un buono spunto: “La morte del mio primo maestro fu un colpo mozzafiato, ero giovane, ma fu anche una travolgente celebrazione dell’impermanenza della vita, un dire sì con tutto il corpo alle cose così come sono. Il mattino dopo, svegliandomi, la notizia non era ancora scesa nel corpo e mi sembrò che stracciasse l’aria come una lama straccia un sipario, ma immediatamente spuntò una voce: questo il momento! Sì ogni momento è esattamente il momento, inutile rimandare. “
La risalita è più affrontabile se chi soffre si sente parte di una comunità, i cui legami diventano fili di protezione. Come il trauma di alcune famiglie diventa dolore collettivo, così la vicinanza e il sostegno reciproco possono aprire piste ripartire. Siamo inseriti in una trama di umanità, che trasmette il dolore, ma attraverso gli stessi nodi della rete si può riavviare la speranza. Nei trattamenti con la terapia Emdr a volte è il ricordo della mano stretta di un soccorritore o il silenzio condiviso con chi ci era seduto accanto che sbloccano l’angoscia e fanno rifluire il senso di vivere.
L’autrice è responsabile del Trauma Center dell’Ospedale Santa Croce di Cuneo