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Giovedì 14 novembre 2024

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Il cuneese Padre Aurelio Gazzera e la sua battaglia contro virus e sfruttatori

Nel cuore dell'Africa, un testimone forte dei nostri tempi: l'esperienza del missionario carmelitano che "ha piegato i fucili" e oggi difende la popolazione, non solo dal virus ma anche da chi porta via l'oro

La Guida - Il cuneese Padre Aurelio Gazzera e la sua battaglia contro virus e sfruttatori

Cuneo – Missionario cuneese nel cuore dell’Africa e in prima linea, Padre Aurelio Gazzera porta avanti le sue battaglie per la popolazione di Bozoum e della diocesi di Bouar, nella Repubblica Centrafricana. All’impegno per lo sviluppo locale e per la pace, contro gli scontri etnico-religiosi (tanto che si conquistò il rispetto come “uomo che piega i fucili”), si aggiunge oggi una doppia battaglia, come ricorda in questi giorni il servizio di informazione religiosa Agensir. Il suo impegno è anche raccontato in un libro, “Coraggio”, i cui proventi sono interamente destinati alla sua missione (informazioni e contatti su www.amiciziamissionaria.it).
Ecco il testo dell’intervista al religioso di origine cuneese, dal titolo “Centrafrica. La duplice lotta di padre Aurelio: contro il coronavirus e contro i razziatori d’oro”.

Nella Repubblica centrafricana il primo caso Covid è stato segnalato a metà marzo. Al 25 aprile secondo i dati Oms, i casi sono 16 e ancora nessuna morte. Padre Aurelio Gazzera, missionario che vive a Bozoum ed è responsabile Caritas per la diocesi di Bouar, non ha perso tempo per sensibilizzare e preparare la popolazione a una possibile epidemia. Oltre che proteggere la popolazione dal virus cinese, Padre Aurelio da mesi sta cercando di proteggerla anche dalla devastazione generata da quattro compagnie estrattive che dalla Cina sono venute a cercare l’oro proprio a Bozoum: è una battaglia che sembra arrivata a una svolta e su cui si stanno accendendo i riflettori a livello internazionale.
Avete iniziato a prepararvi a un possibile scoppio dell’epidemia nella vostra zona?
Come Caritas di Bouar tra il 31 marzo e l’8 aprile ho visitato le parrocchie della diocesi e in ogni parrocchia ho tenuto un incontro con i responsabili delle comunità per fare il punto della situazione, fornire informazioni chiare e precise sul virus, sulle statistiche nel mondo e in alcuni Paesi (Camerun e la Repubblica centrafricana in particolare), sulle misure adottate per limitarne la diffusione, sulla cura, sulle difficoltà del trattamento e dello screening. Abbiamo anche deciso di effettuare un censimento, almeno nelle città e nei villaggi più grandi, per identificare, distretto per distretto, gli anziani, i malati da lungo tempo, le persone con disabilità gravi e le famiglie più povere per poterle monitorare e seguire. Abbiamo consegnato a ogni parrocchia dispositivi di protezione (guanti, maschere, sapone e candeggina) e alimenti (riso, olio, pomodori concentrati). Ci siamo anche mossi sul piano delle scuole, che sono chiuse, e stiamo preparando lezioni per le 6 classi delle elementari che verranno trasmesse attraverso la Radio.
C’è un po’ di consapevolezza sulla serietà della situazione?
Quasi ovunque ci sono poche informazioni: molti credono che il virus non arriverà o che sia solo uno scherzo e quasi ovunque le decisioni prese sono poco rispettate: il 3 aprile il mercato settimanale di Bocaranga era aperto, con migliaia di persone presenti. Il trasporto pubblico, che sarebbe soggetto a restrizioni, continua ad andare e venire senza problemi. La porosità delle frontiere dovrà essere presa in considerazione. La diocesi di Bouar, vicina al Camerun, dove il numero di persone infette ha superato le 1.400 unità, è particolarmente esposta. E la situazione sanitaria è particolarmente fragile. Solo a Bouar ci si confronta sulla creazione di strutture dedicate ai pazienti infetti da Covid19. Altrove, niente… Qui a Bozoum, nonostante la buona volontà del capo medico distrettuale, l’ospedale non ha mezzi: se arriva una persona malata, manca la possibilità di isolarla e di impedire che entri in contatto con gli altri pazienti.
Quanto vi è vicina la comunità internazionale?
C’è molta attenzione e preoccupazione per l’Africa perché i rischi sono maggiori. Si sta muovendo poco a livello di Ong internazionali, se non con grandi movimenti verso lo Stato: ci sono grossi finanziamenti in vista da parte dell’Ue ma c’è anche preoccupazione perché tanti soldi significa grosse possibilità di corruzione e appropriazioni indebite. Da parte della Chiesa c’è una diocesi in Italia che si è attivata; la Cei, la Caritas sia quella italiana sia quella internazionale hanno designato fondi e stiamo lavorando per predisporre strutture e aiuti. Anche dalla Repubblica Ceca c’è una associazione che ci sta aiutando. Nonostante tutto c’è tanta partecipazione e solidarietà e questo è molto bello in un momento così difficile per tutti.
Che cosa vi sarebbe più necessario ora?
Ci preoccupa che le strutture sanitarie, soprattutto quelle pubbliche sono nude, senza alcuna possibilità: né sale di rianimazione, né ventilatori. Mancano persino nella capitale e quindi nelle città più lontane è ancora più difficile. Quello che cerchiamo di fare è aiutare le strutture sanitarie perché abbiano almeno una parte riservata agli infettivi, protezione per il personale e medicine. Dall’altra parte la preoccupazione è per le persone anziane i malati i più fragili che rischiano veramente di essere lasciati a se stessi. E lì cerchiamo di coinvolgere le comunità parrocchiali a occuparsi di queste persone.
Oltre alla tua lotta contro il coronavirus, c’è la lotta contro lo sfruttamento dell’oro a Bozoum che ha condotto in questi mesi e che, finalmente, in questi giorni ha trovato man forte in un rapporto pubblicato da Amnesty International.
Sì, è stato appena pubblicato un rapporto sullo sfruttamento dell’oro a Bozoum, in cui finalmente si mettono in luce i rischi legati alle azioni di quattro società cinesi che estraggono il metallo dal fiume Ouham, vicino a Bozoum. Il nostro fiume è stato scavato e deviato, il territorio devastato, l’acqua sporcata e contaminata dal mercurio a livelli impressionanti che la rendono inutilizzabile per bere ed estremamente pericolosa per l’agricoltura. Come noi chiediamo da tempo, ora Amnesty riconosce che è necessario che il governo sospenda le attività estrattive di queste società, che una commissione indipendente valuti l’impatto ambientale e che si fornisca alla popolazione locale tutta l’assistenza di cui ha bisogno.
Pensa che questo rapporto potrà finalmente aiutare ad arginare e fermare questa operazione commerciale?
Non lo so, sinceramente. Ci sono in ballo troppi interessi, troppi soldi. Leggendo un rapporto dell’International Peace (Ipis), un centro di ricerca del Belgio, ho scoperto che lo Stato ha dichiarato ufficialmente nel 2018 l’esportazione di 142 chili d’oro, mentre dagli scavi artigianali se ne ricaverebbero in realtà 5 tonnellate e 720 chili, quindi 50 volte il dichiarato: significa che tutto questo oro viene esportato senza che alcuno ne tragga beneficio, né lo Stato né le persone che lavorano all’estrazione. Ho visto in questi giorni macchinari che lasciavano Bozoum: bisognerà verificare che cosa sta succedendo, ma può essere che il lavoro che abbiamo fatto abbia finalmente consigliato a queste ditte cinesi di spostarsi. Il problema però potrebbe essere che qui diminuiscono le attività, anche perché forse hanno già preso tutto quello che c’era da prendere, ma vadano in altre zone dove ci sono meno voci, meno controlli e persone che possano denunciare.

 

 

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