Il paese del Sol Levante era stato fino a pochi giorni fa una positiva anomalia rispetto al resto del mondo: il virus lì è arrivato ben prima che in Italia – i primi casi accertati risalgono al 20 gennaio – ma il contagio ha avuto una diffusione lentissima: ancora un mese dopo i casi totali erano meno di 100. Un bel successo, anche considerata la vicinanza con la Cina.
Il premier Shinzo Abe aveva ordinato la chiusura delle scuole a partire dal 2 marzo, e il seppur blando shut down (per moltissime aziende non è cambiato nulla, in questo periodo), unito forse ad un po’ di fortuna, sembrava dare buoni frutti.
Così non è stato: le scuole hanno riaperto e questo, unito ad una certa rilassatezza per i numeri che apparivano sotto controllo, ha scatenato la diffusione del virus, soprattutto a Tokyo. La crescita ora appare velocissima: la curva dei contagi evolve in modo esponenziale.
La crescita è tale quando in un grafico semilogaritmico come quello di fig. 1 i dati si dispongono lungo una linea retta, e questo è proprio ciò che sta succedendo in Giappone da oltre due mesi. In assoluto i numeri sono ancora bassi: meno della Danimarca o della Norvegia, tanto per capirci; ma sufficiente a far dichiarare martedì lo stato di emergenza per il coronavirus a Tokyo, Osaka e in altre cinque prefetture densamente popolate.
Il dubbio è che anche qui i numeri reali siano molto più alti di quelli ufficiali, anche per il fatto che sono stati fatti finora pochissimi tamponi. La gente è libera di muoversi, ma il disciplinatissimo popolo nipponico limita al massimo le uscite, per senso di responsabilità unito alla paura del contagio. E così le strade di Tokyo sono quasi deserte.
Quanto succede in Giappone deve farci riflettere sui rischi di un allentamento delle misure; anche quando sembra sotto controllo, il virus può ripartire e diffondersi di nuovo con rapidità.
Un’ultima annotazione: come è logico, sono le grandi metropoli ad essere più colpite: New York, Madrid, Milano, Tokyo.