Cuneo – Troppo spesso, focalizzati come siamo sui nostri interessi e sul nostro piccolo mondo, ci dimentichiamo che la guerra non è affatto una realtà del passato, qualcosa che commemoriamo in occasioni speciali e che altrimenti releghiamo in una sorta di soffitta mentale. È invece un mostro vorace, vivo e vegeto, che colpisce tanti, troppi popoli e Paesi a cui non prestiamo davvero attenzione. Conflitti che sovente finiscono per non meritare nemmeno una banale condivisione sui social che frequentiamo. Troppo pochi, infatti, sono coloro che si indignano, si informano e tanto meno si mobilitano per quello che avviene nello Yemen o in Siria, nell’Ucraina orientale o in Libia. Tanto per fare un esempio eclatante, non è bastato nemmeno il premio Nobel per la pace a Nadia Murad per impedire che il genocidio perpetrato dall’ISIS in Iraq nei riguardi della minoranza religiosa degli Yazidi restasse poco più che una questione per esperti e appassionati di geopolitica, magari lettori di “Limes” o “Le Monde Diplomatique”.
Non si può, quindi, non applaudire l’idea di un grande drammaturgo e narratore di oggi come Stefano Massini, che ha voluto portare l’attualità a teatro, raccontando con grande forza ed energia la tragica epopea dei tanti che hanno dovuto fuggire dai territori dell’Iraq e della Siria conquistati dai terroristi dello Stato Islamico. Per farlo si è ispirato alla storia vera di una donna anziana, da lui stesso intervistata, la quale nel 2015 ha percorso in 118 giorni oltre cinquemila chilometri, dalla zona di Mosul alla Svezia, passando dall’Iraq alla Turchia, dalla Grecia alla Macedonia (del Nord), dalla Serbia alla Germania. In mezzo a pericoli indicibili, campi profughi, traversate di mare dall’esito catastrofico, profittatori, narcotrafficanti e frontiere più o meno chiuse. Per salvare se stessa e la nipotina, uniche sopravvissute della loro famiglia.
Ne è risultato un monologo, emozionante e brutalmente realistico, punteggiato di drammi che conosciamo purtroppo benissimo ma a cui appunto non badiamo molto: s’intitola “Occident Express (Haìfa è nata per star ferma)” e Massini lo ha affidato ad una grande attrice con cui ha spesso lavorato, Ottavia Piccolo. Come si è potuto constatare al Teatro Toselli il 22 novembre, il lavoro (molto applaudito) faceva interagire le parole – interpretate con grande empatia dall’artista altoatesina – con le altrettanto convincenti musiche dal vivo dell’Orchestra Multietnica di Arezzo diretta da Enrico Fink, un interessante mix tra suoni mediterranei, mediorientali e esteuropei (recuperabile anche in CD o su Spotify). Uno spettacolo molto ben fatto ma soprattutto necessario in questi tempi di “globalizzazione dell’indifferenza”.
Anche il 29 novembre, nel teatro cuneese, era di scena la guerra, in particolare la “guerra dei Trent’Anni” (1618-1648), raccontata da Bertolt Brecht in “Madre Courage e i suoi figli”, mentre in Europa stava infuriando un altro e ancor più terribile conflitto. Scritto nel 1939 in risposta all’invasione tedesca della Polonia (e ispirato ad un celebre romanzo seicentesco di Grimmelshausen), il dramma andò in scena la prima volta proprio nel 1941, nella neutrale Svizzera.
Tipico e eccelso esempio di quello che il drammaturgo tedesco chiamò “teatro epico” (un teatro politico che vuole far ragionare lo spettatore, obbligandolo a reagire e prendere posizione), vede come protagonista una donna che sfrutta l’emergenza della guerra per vendere le sue mercanzie, trasportate su un carro tra Germania, Polonia e Svezia. Per lei è indifferente il fare affari con i cattolici o con i protestanti che si stanno massacrando tra loro: l’importante è guadagnare per sopravvivere, ricominciando da capo ogni volta quando le cose vanno male. Nel corso della storia, la guerra le strappa uno alla volta tutti e tre i figli, amati da lei in modo franco e brutale allo stesso tempo, ma questo non la ferma. Non può fermarla. Una donna coraggiosa o spietata? Vittima o sfruttatrice della guerra? “Se Madre Courage non ricava nessun insegnamento da ciò che le succede”, scrisse Brecht, “penso che il pubblico, invece, può imparare qualcosa osservandola”, ovvero “che la guerra – che non è altro che un tipo di commercio ma con altri mezzi – trasforma tutte le virtù umane in una forza di morte anche in chi le possiede”.
Testo relativamente poco rappresentato in Italia, la “Madre Courage” arrivata a Cuneo era firmata da Paolo Coletta, regista ma anche intelligente curatore di una drammaturgia musicale, che riprende ma soprattutto reinterpreta, sia negli arrangiamenti sia per certi versi nello spirito, le canzoni composte da Paul Dessau per la versione di Berlino del 1949, accentuando il ruolo della musica, eseguita e/o cantata dal vivo dagli stessi attori.
Se i costumi di Teresa Acone guardano ecletticamente più al Novecento che al Seicento, le scene di Luigi Ferrigno creano un’atmosfera quasi distopica, grazie ad un grande specchio inclinato che fa da fondale e rispecchia le azioni in modo confuso, anche perché al centro ha un gigantesco e inquietante foro, forse causato da un gigantesco proiettile, che spesso si illumina di rosso come una telecamera che scruta minacciosamente attori e pubblico.
Quello che spicca maggiormente è però il gruppo degli interpreti, tutti molto bravi e versatili, anche se merita una particolare menzione la prostituta Yvette di Anna Rita Vitolo e il cappellano di Mauro Marino. A rendere, però, lo spettacolo davvero speciale è soprattutto l’interpretazione notevolissima di Maria Paiato che dà alla sua Madre Courage un’inquietante e irrefrenabile energia, anche nelle parti cantate. Non solo non fa rimpiangere chi l’ha preceduta in questo difficile ruolo (Lina Volonghi, Mariangela Melato, Maddalena Crippa e Isa Danieli), ma con questo lavoro si conferma una delle migliori attrici italiane di oggi, come finalmente anche i cuneesi hanno potuto verificare.
Tra l’altro, l’attrice veneta è candidata quest’anno al premio Ubu per la sua acclamata interpretazione ne “Il nemico del popolo” di Ibsen messo in scena da Massimo Popolizio (il quale sarà al Baretti di Mondovì sabato 7 dicembre con il suo “Furore” da Steinbeck).
Ai premi Ubu 2019, ovvero quelli che possono essere considerati gli Oscar del teatro italiano, sono candidati anche uno spettacolo visto l’anno scorso al Toselli (“L’abisso” di Davide Enia) e due che stanno per arrivarvi: “In nome del padre” di e con Mario Perrotta e “La classe” di Fabiana Iacozzilli, in lizza addirittura per 4 onorificenze: “Spettacolo dell’anno”, “Migliore regia”, “Scenografia” e “Progetto sonoro”.
I vincitori verranno annunciati il 16 dicembre al Piccolo Teatro di Milano.