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Domenica 22 dicembre 2024

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Visto con voi: “Amleto” di Valerio Binasco

Il Direttore Artistico dello Stabile di Torino ha proposto una nuova versione del dramma di Shakespeare alle Limone Fonderie di Moncalieri

La Guida - Visto con voi: “Amleto” di Valerio Binasco

Torino – Sono molti gli spettacoli di Valerio Binasco visti in questi anni anche al Teatro Toselli di Cuneo: da “Noccioline” di Fausto Paravidino a “La tempesta”, da “Il mercante di Venezia” (con Silvio Orlando) fino all’”Arlecchino servitore di due padroni” (lo scorso 4 novembre). I meno giovani ricorderanno, infine, anche il Binasco attore nel leggendario “Finale di partita” del 1995, protagonista e regista Carlo Cecchi (nel cui “Amleto”, qualche tempo dopo, il Nostro interpretò il ruolo principale, vincendo il premio Ubu).
Dal 2017 Binasco (nato in provincia di Alessandria nel 1964) è il Direttore Artistico del Teatro Stabile di Torino e in questo ruolo, nelle scorse settimane, ha deciso di fare un passo importante e per certi versi ineludibile nella carriera di un regista: misurarsi pure lui con l’“Amleto”, avvalendosi come consulente drammaturgico proprio dell’altrettanto alessandrino Paravidino (Limone Fonderie, Moncalieri, dal 30 aprile al 19 maggio).  «Fare “Amleto”», ha scritto, «è come scendere in guerra contro il buio, contro il silenzio, contro il disamore. E perdere. Buio, silenzio e disamore sono tra i molti soprannomi della morte. Chi sia destinato a vincere, in guerra contro la morte, si sa. Ma si combatte lo stesso». Da questo confronto è nato uno spettacolo molto interessante, ma – ad essere sinceri – non totalmente convincente.  Spieghiamo perché.
Non ci si stufa mai di vedere il capolavoro di Shakespeare e di ascoltarne lo straordinario testo: ogni volta ci sono sorprese, si scoprono nuovi aspetti, particolari che erano passati inosservati in precedenza. Qua Binasco e Paravidino sono intervenuti senza eccessive forzature sulla bellissima traduzione di Cesare Garboli, ma soprattutto hanno letto il dramma come la storia di un adolescente che è poi quell’adolescente che siamo stati un po’ tutti e che alla fine ci portiamo dietro: pieno di dubbi, paure, insicurezze, fissazioni, in conflitto con il mondo che lo circonda. Sono giovani, infatti, la gran parte degli attori dello spettacolo, a partire dal bravissimo protagonista, Gabriele Portoghese, che offre un Amleto febbrile, fragile e crudele, senza dimenticare l’Ofelia – preraffaellita ma con le Converse ai piedi – di Giulia Mazzarino (che nella scena della follia canta “Girl” dei Beatles), il Laerte di Fausto Cabra, l’Orazio di Christian Di Filippo o i poveri Rosencrantz e Guildenstern con l’accento del Sud di Michele Schiano di Cola e Vittorio Camarota. Tutti travolti da questo dramma metafisico e concreto allo stesso tempo, dove la furia distruttiva e autodistruttiva finisce per prevalere sul compromesso, sul buon senso e su un possibile lieto fine. Unica eccezione, l’amicizia tra Amleto e – sopravvissuto e testimone – Orazio. Dall’altra parte, gli adulti, banalmente cinici o indifferenti. Il Claudio del notevole Michele Di Mauro, un assassino “dal volto umano”: capisce un po’ a malincuore che è impossibile pentirsi e allo stesso tempo godere del proprio crimine e quindi non trova incongruo e immorale il fatto che i suoi gesti abbiano esiti brutali. Mariangela Granelli è una Regina Gertrude insoddisfatta, disattenta, anaffettiva: racconta la morte di Ofelia da ubriaca, senza nessuna partecipazione. Il Polonio di Nicola Pannelli (anche becchino nel funerale di Ofelia), fedele uomo di corte, obbediente strumento del potere altrui, parla come in un monologo di Bergonzoni. Il palcoscenico delle Limone Fonderie viene usato in tutta la sua ampiezza, fino in fondo (pannelli elettrici inclusi), costringendo gli attori a percorrerlo in lungo e in largo e, quando non basta nemmeno quello spazio dilatato, ad avventurarsi nella stessa platea. Pochi gli elementi scenografici, anche se efficaci (la terra del cimitero cade a sorpresa dall’alto). Nel corso delle sue 3 ore e 40 minuti, lo spettacolo è scandito da un continuo salire e scendere di tende, quinte o schermi trasparenti (che volutamente tolgono nitidezza alla scena), mentre spesso le voci appaiono lontane, quasi riverberate, e prevalgono luci fioche. Una scelta stilistica che, esteticamente vincente, forse non lo è dal punto di vista della potenza emotiva del testo, comunque bellissimo ma in certi momenti come raggelato e statico. Sarebbe interessante vederlo riadattato per un teatro più piccolo o molto più piccolo (come il nostro Toselli).
Il Teatro Stabile di Torino offre al Teatro Carignano, dal 28 maggio al 16 giugno, un’autentica chicca: “L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi”, la commedia musicale del 1939 che Sergio Tofano scrisse con Nino Rota con protagonista il suo famoso personaggio vestito di bianco e rosso. A metterla in scena niente meno che una delle star europee del teatro di ricerca (nonché direttore del Settore Teatro della Biennale di Venezia), Antonio Latella. Ad aiutarlo la sua Dramaturg preferita (Linda Dalisi), un gruppo di otto attori e quattro musicisti che suoneranno dal vivo.

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