Qualcosa già l’avevano annunciato i sondaggi, qualcosa di più un nuovo fremito avvertito nelle numerose e partecipate mobilitazioni delle ultime settimane e, alla fine, un messaggio importante è arrivato all’Unione Europea con l’esito del voto al Parlamento europeo.
Un primo segnale è stato il tasso di partecipazione al voto: non ancora quello che avrebbe meglio confortato questa nostra straordinaria “democrazia tra le nazioni”, ma in forte crescita rispetto a quello del 2014 (con l’Italia in controtendenza), la più alta affluenza degli ultimi 20 anni, anche grazie a una forte politicizzazione del voto. Un incremento che incoraggia chi crede nella democrazia rappresentativa in un periodo in cui questa registra un inquietante indebolimento anche a livello nazionale.
L’altro messaggio è venuto dall’esito elettorale che non ha visto una travolgente ondata nazional-populista come qualcuno aveva preannunciato a suon di comizi e di rozze semplificazioni contro il “capro espiatorio” dell’UE. Certo il consenso ottenuto da quanti vogliono far girare all’indietro le lancette della storia manda un segnale da non sottovalutare. Sono tanti quelli che sembrano aver nostalgia dei “vecchi tempi” e poca visione del futuro: sarà bene, appena possibile, leggere le proporzioni di voto per classi di età oltre che per gruppi sociali. Capiremo meglio chi frena il cammino verso un’Europa più forte e coesa e chi la vuole veder regredire a pretese sovranità nazionali. Soprattutto dovremo cercare di capire che Unione vogliono le nuove generazioni e con quale capacità di protagonismo.
Naturalmente, come da copione, tutti dicono di aver vinto. Lo dice anche quel Nigel Farage, responsabile per il Regno Unito di una sconfitta storica dalla quale sarà difficile riprendersi; lo dicono gli euroscettici sparsi un po’ ovunque, numerosi in Europa, ma ciascuno con scarso peso all’interno del proprio Paese, salvo in Francia e in Italia. Due Paesi dai quali sale sulla scena europea un’accoppiata, Marine Le Pen e Matteo Salvini, con buone percentuali che però potrebbero non bastare a rompere il loro isolamento in Europa: è infatti improbabile che possano affascinare molti parlamentari europei; si avvarranno del loro risultato prevalentemente entro il perimetro nazionale, in coerenza con la loro miope visione provinciale del mondo.
Tireranno un sospiro di sollievo e canteranno vittoria anche gli “europeisti”, contenti di aver salvato il salvabile e di poter mantenere la maggioranza in Parlamento e, con essa, la Presidenza insieme con un favorevole rapporto di forza nell’orientare il ricambio dei Vertici europei nel prossimo semestre. Sarebbe bene che questa maggioranza politica avesse a mente subito due o tre cose: di essere una famiglia ancora numerosa, ma con una nuova composizione più plurale che in passato, grazie in particolare al successo di liberali e Verdi; di avere a che fare con una minoranza determinata a disfare l’Unione dall’interno, avvalendosi di procedure decisionali che si prestano al sabotaggio e, infine, di dovere affrontare, dentro e fuori dall’UE, sfide straordinarie.
All’interno la ricostruzione di una casa comune che negli ultimi anni si è andata deteriorando e frammentando, con nuove politiche da rilanciare e un equilibrio istituzionale in grado di contrastare la deriva intergovernativa; all’esterno la riconquista di un ruolo politico, oltre che culturale ed economico, in un mondo sempre più turbolento e sempre meno orientato verso culture di dialogo multilaterale meglio attrezzate per spegnere conflitti e guerre.
E’ urgente adesso capire meglio la nuova geografia politica dell’Unione Europea, lontana anni luce da quella delle sue origini.
Ci sarà molto da fare nei prossimi cinque anni di questa legislatura.