Venerdì sera il celebrato Festival delle Colline Torinesiè terminato alla Lavanderia a Vapore di Collegno con una riscrittura firmata da Linda Dalisi dell’”Aiace” di Sofocle e presentata dalla compagnia “stabilemobile” di Antonio Latella.
Sono tanti gli spettacoli andati in scena nei 22 giorni di questa 23° edizione della rassegna diretta da Sergio Ariotti insieme a Isabella Lagattolla: qua (o nella versione cartacea di questa rubrica) si è già parlato di “Giulio Cesare. Pezzi staccati” di Romeo Castellucci, lo straordinario “Late Night” degli ateniesi del Blitz Theatre Group e “Birdie” della spagnola Agrupación Señor Serrano.
Tra i lavori visti da chi scrive non si può, però, dimenticare “I libri di Oz” che Fanny & Alexander, la “bottega d’arte fondata a Ravenna nel 1992 da Luigi De Angelis e Chiara Lagani”, ha presentato il 3 giugno in quel nuovo e delizioso spazio teatrale che è il Café Müller (nato a Torino negli ex locali del cinema Alexandra di via Sacchi). In 50 preziosi minuti, Chiara Lagani ha offerto una sorta di lettura scenica di brani tratti dai numerosi romanzi che Frank Baum ha dedicato al mondo di Oz e che l’attrice/drammaturga romagnola ha tradotto da poco per i “Millenni” di Einaudi. Aiutata dalle illustrazioni del volume, disegnate da Mara Cerri, dalle animazioni video (di De Angelis) e dalla sua notevole voce, Lagani ha riproposto personaggi che conoscevamo già (lo Spaventapasseri, il Leone Codardo e ovviamente Dorothy con le sue celeberrime scarpette rosse) ma altri che ai più sono ignoti: la gallina Billina, i Ruotatori, l’inquietante Regina Mombi con le 30 teste intercambiabili, la Signorina Ritaglio, l’automa Tic-Toc e la triste storia di Nimmie Amee, Capitan Lotta e Chopfyt. Mostrando un lato quasi distopico della saga di Baum, che i fan del film con Judy Garland e del famoso brano “Somewhere Over the Rainbow” probabilmente non sempre colgono.
Lasciava decisamente perplessi, invece, la scelta fatta da Licia Lanera nel mettere in scena “Roberto Zucco” di Bernard-Marie Koltès(Teatro Gobetti, Torino, dal 12 al 17 giugno). Ultima opera pubblicata in vita dal drammaturgo francese (morto nel 1989, a soli 41 anni), è una sorta di trasfigurazione visionaria e poetica della vicenda (vera) di un pluriomicida di origine italiana che negli anni ‘80, prima di suicidarsi, terrorizzò la Francia del Sud, dopo aver ucciso anche padre e madre. Nelle mani della già vincitrice (nel 2014) del premio Ubu (come miglior attore/attrice under 35), questo dramma così complesso e (in passato) controverso sembra diventare un mero pretesto per un percorso teatrale personale della regista, più attenta a letture spiazzanti che alla lettera del testo e – soprattutto – alla resa recitativa degli interpreti (i 18 diplomati della Scuola del Teatro Stabile di Torino, tra cui svettava comunque Riccardo Niceforo, nel ruolo principale).
E’ stato nuovamente emozionante, invece, rivedere “Macbettu” di Alessandro Serrache i frequentatori del Teatro Toselli hanno applaudito con un entusiasmo inusuale il 25 marzo scorso. L’aspra e sorprendente rilettura del dramma di Shakespeare in lingua sarda risultava ancora più visionaria alle Limone Fonderie Teatrali di Moncalieri (17-18 giugno), il cui palcoscenico molto più ampio permetteva agli incredibili attori della compagnia Teatropersona maggior respiro e agio nei movimenti. In compenso, col senno di poi, nello spazio certo più angusto ma sicuramente più intimo del teatro cuneese, erano stati amplificati maggiormente il carattere claustrofobico della messinscena e l’inquietudine che la pervade.
Dulcis in fundo, uno degli spettacoli più importanti della rassegna: “Empire” di Milo Rau, presentato all’Astra il 16 e il 17 giugno. Incaricato di preparare un “Vangelo secondo Matteo” teatrale (dopo quello cinematografico di Pasolini) per “Matera 2019”, il celebrato regista svizzero è autore di un teatro decisamente politico, dove l’approccio quasi documentaristico e storiografico e l’impostazione multimediale non gli impediscono di costruire spettacoli di grande impatto emotivo. Se in “The last days of the Ceausescus” raccontò la fine della dittatura in Romania e in “Hate Radio” il genocidio in Rwanda, in “Breivik’s Statement” ha dato, invece, voce alle farneticanti motivazioni ideologiche del terrorista norvegese autore della strage di Utoya. Se in “The Moscow Trials” ha riproposto il processo per reati di opinione intentato dalla giustizia russa contro il gruppo punk Pussy Riot, in “Five Easy Pieces” (premio Ubu 2017 per il miglior spettacolo straniero rappresentato in Italia) affidava ad un gruppo di attori bambini la ricostruzione della vicenda del “mostro di Marcinelle”, il pedofilo assassino belga Marc Dutroux.
“Empire” è la conclusione di una trilogia dedicata all’Europa, alla sua crisi di identità, ai pericoli che la minacciano e alle opportunità che la possono salvare. Se nella prima parte (“The Civil Wars”) il tema centrale era l’estremismo contemporaneo e nella seconda (“The Dark Ages”) la guerra, con una particolare attenzione ai conflitti nell’ex-Jugoslavia, questa terza puntata s’interroga sulle frontiere del nostro Continente. Non lo fa con discorsi astratti, ma affidando la parola a quattro attori migranti per necessità o per scelta più forzata che spontanea. Sono: un’ebrea romena che lascia il regime comunista (la bravissima Maia Morgenstern, Maria nella “Passione di Cristo” di Mel Gibson); un greco che ai tempi della “Dittatura dei Colonnelli” lascia il suo Paese, che i suoi genitori (appartenenti alla minoranza greca della Crimea) avevano raggiunto per fuggire ai Bolscevichi (Akillas Karazissis); un arabo siriano sopravvissuto al conflitto che ha distrutto la sua terra (Ramo Ali) e un curdo siriano, arrestato tra l’altro dal regime di Assad per aver recitato nella sua lingua in Libano (Ramo Khalif).
Raccontano le loro storie personali con tono pacato, ognuno nella propria lingua, quasi sotto voce, rivolgendo lo sguardo non al pubblico, ma ad una telecamera azionata a turno, che proietta sullo schermo sovrastante i loro volti in bianco e nero. La loro vita prima dell’arrivo in Europa, le vicende familiari, i conflitti o i drammi che le hanno segnate, le loro carriere, il legame con i propri cari e la loro terra. Non esitano a farci sentire con gli smartphone voci registrate dei genitori, ormai morti lontani da loro. Khalif mostra in video il suo pericoloso ritorno in Siria per omaggiare la tomba del padre, mentre la Morgenstern racconta le esperienze di antisemitismo subìto e le investigazioni ad Auschwitz per ritrovare tracce dei propri familiari morti. Se Ali ricorda il coinvolgimento del padre soldato nella strage di Hama del 1982, poi non esita a mostrarci brutalmente l’esito delle sue ricerche su un sito (safmcd.com) che raccoglie foto di cadaveri di vittime di Bashar al-Assad, nel tentativo di ritrovare il fratello scomparso durante le manifestazioni della “primavera araba” in Siria.
Il tutto avviene in una cucina che è il frutto (negli arredi e negli oggetti) dei ricordi dei quattro. A punteggiare uno spettacolo che sarà difficile dimenticare, le coinvolgenti musiche della compositrice greca Eleni Karaindrou e i riferimenti alla tragedia antica (da “Medea” all’”Orestea”), che creano tra passato e presente echi e analogie intriganti ed inquietanti.