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Giovedì 28 marzo 2024

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Visto con voi: Shakespeare tra mamuthones e pane carasau

Al Toselli il "Macbettu" di Sardegna Teatro e di Teatropersona di San Casciano di Bagni, spettacolo vincitore del premio Ubu 2017

La Guida - Visto con voi: Shakespeare tra mamuthones e pane carasau

Una scena del "Macbettu"

Uno spettacolo che vale una stagione. È il “Macbettu” di Sardegna Teatro e di Teatropersona di San Casciano di Bagni, diretto da Alessandro Serra e proposto nel cartellone di Contemporaneo del Toselli, domenica 25 marzo.
Un’ora e mezza e sei inchiodato lì sulla sedia del teatro per applaudire (e il pubblico cuneese l’ha fatto per dieci minuti consecutivi) uno spettacolo straordinario. Capisci perché ha vinto l’Oscar del teatro, il premio Ubu 2017, e capisci perché il teatro è un’arte unica. In scena un classico dei teatri di mezzo mondo, il shakespeariano Macbeth, eppure qui del tutto nuovo. Non solo perché recitato nel sardo nuorese della Barbagia, ma perché della Sardegna, del rapporto strettissimo tra uomo e natura, delle maschere, delle sonorità, del folklore, ne è pervaso dalla prima scena all’ultima. E così ne esce una tragedia, tra le più rappresentate di Shakespeare ma anche uno dei drammi più noir, trasformato in qualcosa di molto di più, perché sa raccontare, far ridere, rendere visibili e udibili sentimenti e rancori, angosce e desideri e l’abisso della coscienza. È l’essenza del Macbeth originale, ma un’essenza che stupisce e che affascina. In tutto: nei suoni, nelle luci di un pallido bagliore lunare che interagiscono con una scenografia scarna, essenziale, che si modifica a seconda delle esigenze, dove grandi lastre di acciaio diventano tavoli, porte, mura, alberi della foresta tra fumi e polveri, dove di una Sardegna atemporale rimane un cumulo di pietre nuragiche. Serra riesce a rendere un’atmosfera unica giocando sul movimento, sul suono, su un testo ridotto (la traduzione coi sottotitoli) adattato alla musicalità del sardo, ma anche grazie a suoni di campanacci, sibili, colpi, brusii e ronzii, sulle maschere e i travestimenti, che si aggiungono a una serie di incredibili trovate sceniche come la cavalcata senza cavallo, un mimo che ricorda i giochi da bambino, i maiali che accorrono a cibarsi, la festa con un tavolo imbandito su cui Macbeth cammina su un letto di pane carasau che scrocchia, l’incedere di un pilastro-bara-bastone della pioggia con suoni che rimandano all’aldilà, quell’inseguirsi di mani su sfondo nero negli incubi di una Lady Macbeth, diafana, androgina, terribile e debole allo stesso tempo (in perfetto stile elisabettiano tutti i personaggi sono interpretati da uomini). Tutto è coralità di voci, suoni, movimenti: l’emblema sono le tre streghe che aprono e chiudono il dramma, le sorelle fatate, inquietanti e assolutamente divertenti allo stesso tempo, che si muovono con una velocità quasi da automa, che recitano litanie incomprensibili, Mamuthones rivisitati che riempiono lo spazio scenico ma anche le menti dei protagonisti obnubilate dal rimorso e dalla disperazione.

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