Nei “Vangeli” (“Matteo”, 14,3-11 e “Marco”, 6,17-28) la danza di colei che solo secoli dopo verrà chiamata Salome, è lo strumento attraverso cui la madre Erodiade ottiene la sua vendetta su Giovanni Battista. Il profeta, ai suoi occhi, merita la morte perché insiste a condannare il suo comportamento immorale, avendo lei abbandonato il marito legittimo (Erode Filippo) per il di lui fratello, Erode Antipa, tetrarca di Giudea. Quando, ispirato da un racconto di Flaubert, Oscar Wilde scrisse per Sarah Bernhardt un atto unico dedicato alla giovane figliastra del sovrano di Gerusalemme, non solo scelse la lingua francese per sfuggire alla proibizione britannica di mettere in scena temi biblici ma amplificò il carattere già di per sé scandaloso e macabro della vicenda. Per lo scrittore irlandese Salome non è un fantoccio nelle mani di una madre astuta ma una 16enne viziata dal lusso di corte, conscia del proprio potere e del proprio fascino, morbosamente attratta dal Battista, prigioniero del patrigno che, invece, lo teme. Vorrebbe possedere il corpo bianco, i capelli neri e soprattutto le labbra rosse proprio di colui che condanna la corruzione della corte e annuncia la venuta del “figlio dell’Uomo”. Di fronte al rifiuto sdegnato di Giovanni (nel testo: Jochanaan), abituata com’è a realizzare ogni suo desiderio, Salome manipola il patrigno di cui conosce le debolezze e balla per lui la “Danza dei sette veli”, a piedi nudi, sul sangue di un uomo (il povero capitano Narraboth, di lei follemente innamorato) che s’è appena ucciso a causa sua. In cambio ottiene la testa mozzata del prigioniero per poterne finalmente baciare la bocca. In modo talmente mostruoso da suscitare l’orrore di Erode, che ordinerà la morte della figliastra. In mano all’autore del “Ritratto di Dorian Gray”, il dramma diventa un concentrato (per i tempi) scabroso di estetismo necrofilo e decadente, erotismo malsano e esotismo che la Bernhardt non avrà il coraggio di recitare, visti anche gli “scandalosi” problemi di Wilde con la giustizia. Fu forse, invece, proprio il carattere controverso della pièce (pubblicata – tra l’altro – in Inghilterra nel 1894 con le straordinarie illustrazioni Art Nouveau di Aubrey Beardsley) ad attirare l’attenzione di Richard Strauss che ne musicò la traduzione in tedesco, creando quello che, oltre ad essere il suo debutto operistico (avvenne nel 1905 a Dresda), rappresentò una svolta nella storia del melodramma. Salutata immediatamente da grande successo ma anche da scandalo e proibizioni (a Berlino arrivò solo dopo la Grande Guerra) “Salome” è un’opera – difficile e sperimentale, ma allo stesso tempo emozionante e affascinante – che non cessa mai di esser proposta dai teatri lirici un po’ ovunque. Doveva essere il culmine anche del “Festival Strauss” del Teatro Regio di Torino (dove, tra l’altro, l’opera ebbe la sua prima italiana nel 1906, con lo stesso Strauss sul podio). Era prevista, infatti, la ripresa della produzione del celebre regista Robert Carsen, già vista nel capoluogo piemontese nel 2008 ed ambientata non a Gerusalemme, ma a Las Vegas, nel caveau di un casinò. Purtroppo l’incidente del 18 gennaio scorso, oltre a ferire due coristi in una replica della “Turandot”, ha causato da parte delle autorità giudiziarie il sequestro dell’impianto scenico del Regio. Così “Salome” è stata giocoforza riallestita in forma semiscenica da una collaboratrice di Carsen, Laurie Feldman, perché potessero svolgersi regolarmente le 5 recite previste tra il 15 e il 25 febbraio. Il risultato è stato a dir poco minimale sia da un punto di vista visivo (fondali neri, qualche sedia e costumi eleganti ma monocordi), sia da quello teatrale, dove in certi casi hanno giocato un ruolo decisivo più le luci di Andrea Anfossi che le interpretazioni attoriali dei cantanti, costretti spesso a movimenti scenici poco motivati e forse frutto della fretta che ha caratterizzato l’allestimento. In compenso, in questa maniera, è stata la musica di Strauss a balzare in primo piano, col suo mix di spiritualità e carnalità, santità e peccato e soprattutto tonalità tardoromantica e atonalità novecentesca, grazie all’Orchestra del Teatro Regio diretta con energia e passione da Gianandrea Noseda e alle voci dei cantanti, tra cui svettavano Erika Sunnegårdh (Salome), Tommi Hakala (Jochanaan), Enrico Casari (Narraboth) e soprattutto Doris Soffel (Erodiade). Meno convincente, invece, ma comunque efficace, almeno nella sera della prima, Robert Brubaker (Erode). Il “Festival Strauss” non si è concluso con l’ultima replica di “Salome”: la mostra “Richard Strauss e l’Italia” è aperta alla Biblioteca Nazionale Universitaria, di piazza Carlo Alberto 3, sempre a Torino, fino al 17 marzo. Il prossimo spettacolo del Regio è, invece, un capolavoro del melodramma barocco: “L’Orfeo” di Monteverdi (1607), che sarà messo in scena con la regia di Alessio Pizzech. Si debutta il 13 marzo e si replica il 15, il 17, il 18 e il 21.