L’edizione 2017 de “La Fabbrica delle Idee”, la benemerita rassegna teatrale che dal 2001 si svolge soprattutto in quel luogo suggestivo e pieno di memorie dolorose che è il parco dell’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi, è iniziata e si è conclusa con uno spettacolo che ha vinto il premio Ubu nella categoria “Novità o nuovo progetto drammaturgico”: rispettivamente il 10 giugno “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni” di Deflorian-Tagliarini (premiato nel 2014) e il 2 luglio “Amore” di Scimone e Sframeli (vincitore nel 2016).Il primo è ispirato ad alcune pagine di un romanzo di Petros Markaris (“L’esattore”, Bompiani, 2012), dove si riferisce che quattro pensionate greche si sarebbero suicidate per non essere di peso alla società. L’idea di un suicidio come forma di estrema lotta politica spinge la celebrata compagnia formata da Daria Deflorian (già vista a Racconigi ne “L’0rigine del mondo”, la celebratissima trilogia di Lucia Calamari) e Antonio Tagliarini (accompagnati qui da Monica Piseddu e Valentino Villa) sia a ricordare eventi passati (i suicidi di Jan Palach e dei monaci buddhisti in Vietnam) sia a confrontarsi con gli effetti della crisi economica in Grecia ma anche in Italia. Lo spunto verosimile anche se immaginario è l’occasione però per il quartetto di attori per un lavoro di immedesimazione nei personaggi evocati ma anche per una riflessione, nell’apparente forma di un work in progress, sullo stesso significato del fare teatro oggi. Un lavoro interessante e molto intelligente, la cui fruizione è stata però molto difficoltosa a causa dell’acustica dell’appena rinnovata Società Operaia di Mutuo Soccorso di Racconigi, decisamente non adatta a serate come questa.Lo spettacolo di Spiro Scimone e Francesco Sframeli si è invece svolto nel consueto parco dell’Ospedale Psichiatrico. Ambientato in un cimitero surreale, dove le tombe si possono trasformare anche in letti a due piazze, vede in scena due coppie non più giovani: un uomo e una donna, il cui matrimonio sembra ormai sopraffatto dai problemi e dalle amnesie della vecchiaia, e un improbabile duo di pompieri omosessuali, il comandante e l’autista, il primo dentro un carrello da supermercato, dotato di volante e di sirena e trainato dal secondo. Il testo, bellissimo, giocato sulle ripetizioni delle parole e su particolari apparentemente banali o quotidiani (dentiere, pannoloni, creme anti-prurito), intreccia il presente non esaltante dei quattro ad un passato, ricordato con nostalgia o con il rimpianto delle opportunità perse. Presto, attraverso i dialoghi stralunati e spesso comici, si scopre che quello che stiamo vedendo è una sorta di non-luogo, che mostra il passaggio pacificante tra il rumore della vita e il silenzio della morte. Come un Beckett lieve e sorridente, “Amore” commuove in modo spiazzante. Una meraviglia.Tra i tanti spettacoli che si sono avvicendati nel frattempo (spesso, purtroppo, in sovrapposizione con il Festival delle Colline Torinesi e “Mirabilia” a Fossano) non si può dimenticare ovviamente il nuovo lavoro di Babilonia Teatri, “Pedigree”, arrivato il 13 giugno. Autore in passato di opere strepitose come “The end”, “Jesus” e “Pinocchio” e, non a caso vincitore del Leone d’argento alla Biennale Teatro di Venezia nel 2016, il gruppo di Verona non si è confrontato questa volta con temi filosofici e a volte decisamente escatologici (la sofferenza, la morte, la vita dopo la morte, la religione) come aveva abituato il suo pubblico. “Pedigree”, infatti, ha affrontato la questione di particolare attualità dell’identità sessuale, raccontando la storia di un ragazzo con due madri, le sue difficoltà nell’essere accettato nell’ambiente di provincia e la ricerca – una volta divenuto maggiorenne – del suo padre biologico e dei suoi “fratelli” nati dallo stesso donatore. Particolarmente curato e ricco di spunti, il monologo è stato interpretato dall’autore, Enrico Castellani. Punteggiato di musica di Elvis Presley e scandito dalla cottura reale (in un girarrosto) dei polli a cui faceva riferimento la storia, questo nuovo lavoro (presentato nei giorni precedenti al Festival delle Colline Ticinesi) finiva per risultare però privo di quel mordente, di quelle innovazioni linguistiche e di quella visionarietà che quasi sempre i Babilonia Teatri hanno offerto in passato. Uno spettacolo ineccepibile, ci mancherebbe, ma alla fine un po’ di maniera. Dalla compagnia veneta si pretende molto, molto di più.È un po’ quello che è successo anche il 19 giugno, sempre all’ex Ospedale Psichiatrico, con il nuovo spettacolo di un grande attore e drammaturgo con quattro Ubu alle spalle, Saverio La Ruina, un’altra presenza costante negli anni a Racconigi. “Masculu e fìammina” (presentato la sera prima anche al Festival delle Colline Torinesi) raccontava in un monologo in calabrese la vita di un uomo che, di fronte alla tomba innevata della madre, le confessa di non avere potuto vivere serenamente la propria omosessualità, incapace di abbandonare veramente l’ambiente chiuso e tradizionalista della cittadina del Sud dov’era nato. Malinconico, mai sopra le righe anche nei momenti più drammatici e attentissimo nel descrivere un mondo e un’epoca per certi versi passati, la pièce pur tuttavia mancava di quella marcia in più che ci si poteva aspettare da uno come La Ruina, straordinario anche questa volta come attore ma non altrettanto sorprendente come drammaturgo. Soprattutto se in passato lo si era ammirato con opere come “Dissonorata”, “La borto” o anche il recente “Polvere”.Il 20 giugno è stato invece il turno di Mario Perrotta, un artista molto amato nella nostra provincia e spesso presente con i suoi spettacoli sia a Racconigi sia al Toselli di Cuneo. Per l’occasione l’attore/autore pugliese ha presentato “Emigranti esprèss”, un effervescente reading che aveva oggetto tre puntate dell’omonimo programma radiofonico di Radio2 che nel 2006-2007 gli aveva dato notorietà e che aveva poi anche dato origine anche ad un libro (Fandango, 2008). Il mondo degli emigranti del Sud alla ricerca di lavoro al Nord (e non solo in Italia) viene raccontato attraverso i ricordi dello stesso Perrotta che nei primi anni ’80, bambino, prendeva il treno da Lecce a Milano una volta al mese per raggiungere il padre che faceva l’insegnante a Bergamo. Il risultato era ed è divertente e amaro allo stesso tempo: se è spassoso il racconto della frenesia per prendere il posto migliore sul treno o delle strategie della madre dell’attore per individuare una famiglia perbene a cui affidarlo lungo il viaggio, è invece poetica la vicenda della donna che per 30 anni torna nella Stazione Centrale di Milano per ricordare un amore perduto. È, infine, dolorosa e piena di analogie con l’attualità la descrizione della brutale accoglienza dei lavoratori stranieri nella Svizzera del secondo dopoguerra.La vera sorpresa, però, è stato l’altro spettacolo che Perrotta ha presentato quella stessa sera, due ore e mezza prima del suo reading. Si trattava di “Lireta – a chi viene dal mare”, ispirato a “Lireta non cede”, il diario dell’albanese Lireta Katiaj (scoperto dall’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e poi pubblicato da Terre di Mezzo): una “storia che racconta la forza di una donna capace di ribellarsie di trovare la felicità” che appare come la “summa” delle possibili vicende spesso drammatiche da cui nasce la scelta dell’emigrazione. Affidato all’interpretazione sanguigna di Paola Roscioli (tra l’altro, moglie di Perrotta), lo spettacolo alterna la recitazione e il canto come in un Brecht ripensato in chiave popolare, il tutto accompagnata dalle belle musiche interpretate da Laura Francaviglia (chitarra) e Samuele Riva (violoncello). Il risultato trascina il pubblico in un racconto esemplare di tanti possibili altri racconti, con un’immediatezza sorprendente e senza cerebralismi, facendo trepidare chi ascolta e guarda per le vicende avvincenti e terribili di questa Madre Coraggio nata a Valona.