Se il titolo “L’incoronazione di Dario” evoca in voi l’idea di un dramma storico ad alto rischio noia, sappiate che siete fuori strada. Il melodramma, uno delle innumerevoli opere liriche scritte da Antonio Vivaldi (lui affermava di averne composte 94, noi ne possediamo una ventina), si basava su un libretto già allora un po’ vecchiotto, scritto circa 30 anni prima da Adriano Morselli. Già sfruttato da vari musicisti, era un testo tragicomico, assolutamente infondato da un punto di vista storico ma apprezzato per l’ambientazione esotica, che raccontava la competizione tra i tre pretendenti di Statira, figlia del defunto imperatore persiano Ciro, ingenua al limite della stoltezza. Se due di loro, Arpago e Oronte, sono spinti dalla brama del potere, solo Dario è davvero innamorato dell’erede di un trono così importante. O almeno così sembra. A complicare le cose ci sono due presenze soprannaturali (il fantasma di Ciro e niente meno che l’oracolo di Apollo), un anziano filosofo di corte innamorato invano di Statira, la sorella di costei, Argene, intelligente e scaltra (vorrebbe diventare lei la moglie di Dario nonché imperatrice), e la principessa Alinda innamorata di Oronte (il personaggio più emozionante e psicologicamente convincente).Andato in scena per la prima volta il 23 gennaio 1717 al leggendario Teatro Sant’Angelo di Venezia (vicino a Rialto), “L’incoronazione di Dario” vedeva per l’occasione il non ancora celeberrimo tenore Annibale Pio Fabri nella parte del futuro imperatore, il contralto Anna Dotti (futura star händeliana a Londra) nel ruolo di Statira e lo stesso Vivaldi al violino solo.Molto diversi dai melodrammi ottocenteschi che spadroneggiano tuttora nei nostri teatri d’opera, questi loro precursori tardobarocchi sono quasi sempre un susseguirsi rigido di recitativi e arie (spesso monostrofiche o quasi), le quali erano più che altro scuse per le esibizioni virtuosistiche dei vari cantanti, che cercavano di attrarre l’attenzione (a volte inutilmente) di un pubblico molto distratto che spesso chiacchierava, mangiava, beveva, fumava o giocava. Se ascoltate però “L’incoronazione di Dario” (ad esempio, nella versione registrata nel 2014 dalla ravennate Accademia Bizantina), potete scoprire come il genio di Vivaldi riesca a rendere il tutto vivo e spumeggiante, giocando con efficacia sia sulla leggerezza sia sul dramma.E’ davvero encomiabile, quindi, il recupero di quest’opera del Prete Rosso (300 anni esatti dopo il debutto) da parte del Teatro Regio di Torino, che lo propone all’interno del “Progetto Opera Barocca” (che l’anno scorso ha presentato il bellissimo “Didone e Enea” di Purcell) e di un vero e proprio “Festival Antonio Vivaldi” (il 90% dei manoscritti del musicista è conservato proprio nel capoluogo piemontese).Sono cinque le recite previste (la prima è stata il 13 aprile, le ultime due saranno sabato 22 e domenica 23, entrambe le volte alle ore 15), rivolte soprattutto ad un pubblico curioso e in vena di sorprese. Con l’Orchestra del Regio diretta da un superesperto di musica antica, Ottavio Dantone (eccellente clavicembalista, nonché guida dell’Accademia Bizantina di cui sopra), l’allestimento è curato da Leo Muscato, noto per le sue regie anticonformiste sia nella prosa (al Toselli s’è visto nei mesi scorsi il suo “Come vi piace” shakespeariano) sia nella lirica. Incuriosito da questo intreccio di amore e potere, commedia e tragedia, sentimenti e inganni, ha giocato sui personaggi come fossero maschere della commedia dell’arte e ha trasportato la storia in un improbabile Medio Oriente di oggi, situandola tra ambienti dal lusso eccessivo e kitsch e i pozzi petroliferi e le raffinerie che sono la risorsa e la rovina di quella zona del mondo. Ha fatto diventare Dario una sorta di ricco petroliere dell’Arabia Saudita o degli Emirati (con vestito occidentale e ghutrah bianca in testa), Orione un leader degli operai e Arpago il capo di una milizia paramilitare, mostrando allo stesso tempo, grazie ad un gruppo di invadenti giornalisti/paparazzi, il ruolo dei media nel raccontare al mondo questa lotta per il potere. Utilizzando le scenografie piene di inventiva e i divertenti costumi creati dagli studenti dell’Accademia Albertina di Torino, il risultato è davvero notevole. In perfetta sintonia con questo melodramma così ambivalente, in bilico tra gioco e pathos, sono tutti i cantanti, molti dei quali già presenti nell’album dell’Accademia Bizantina. Il tenore Carlo Allemanno è Dario, il contralto Sara Mingardo (bravissima) dà credibilità ad un personaggio incredibile qual è Statira (e diventa spassosa nell’aria ripetuta a sfinimento “Sentirò fra ramo e ramo”), mentre il soprano Roberta Mameli colora di dolore la sua Alinda, creando vibrazioni sentimentali assenti nel resto dell’opera (splendida la sua “Io son quell’augelletto”). Ma sono convincenti anche Delphine Galou (Argene), Riccardo Novaro (Niceno) e, nelle due parti en travesti, Lucia Cirillo (Oronte, in origine affidato ad un castrato) e Veronica Cangemi (Arpago).Tre ore di grande divertimento: se potete, non perdetele.