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Martedì 23 aprile 2024

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Visto con voi: “Orestea” di Anagoor

Vincitrice del Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2018, la compagnia veneta ha presentato all’Astra di Torino la propria interpretazione del capolavoro di Eschilo

La Guida - Visto con voi: “Orestea” di Anagoor

Cuneo – Gli Anagoor sono una compagnia nata da un gruppo di ex studenti del Liceo “Giorgione” di Castelfranco Veneto che frequentava il laboratorio teatrale curato allora (come oggi) da Patrizia Vercesi, insegnante di greco e latino, diventata poi Dramaturg della compagnia insieme al suo ex allievo (e ora regista) Simone Derai. Se sono diventati uno dei gruppi più importanti del nuovo teatro italiano è grazie a spettacoli come “Lingua Imperii”, “Virgilio brucia”, “Santa impresa” (un lavoro con Laura Curino su Don Bosco e i santi piemontesi dell’Ottocento di cui “La Guida” parlò ampiamente) e lo straordinario “Socrate il sopravvissuto”.
Nel 2018, infine, è arrivato il Leone d’Argento per l’innovazione teatrale attribuito dalla Biennale di Venezia.  In occasione del conferimento di questo premio molto più che prestigioso, il gruppo ha presentato una novità assoluta, anziché – come fanno molti altri premiati – un lavoro significativo della propria carriera. Così, il 20 luglio scorso, al Teatro delle Tese all’Arsenale di Venezia, ha debuttato “Orestea”, con cui i veneti si confrontano con uno dei massimi capolavori dell’antichità, ovvero la trilogia di Eschilo che racconta i sanguinosi drammi della famiglia degli Atridi dopo il sacrificio agli dèi di Ifigenia. Un’opera che per certi versi appare come un logico approdo per gli Anagoor, così attenti da sempre al confronto con l’antichità classica e con i temi della violenza, della giustizia e dell’ingiustizia, della memoria, della domanda di senso e – soprattutto – della morte. Un’opera di per sé già “mostruosa” che, però, Derai e Vercesi fanno interagire con una valanga di altre ispirazioni, costruendo un testo dove le parole di Eschilo si alternano per esempio a quelle sulla morte nell’ebraismo e nello zoroastrismo del Sergio Quinzio di “Cristianesimo dell’inizio e della fine” (Adelphi), a quelle che Platone fa pronunciare a Socrate alla fine della vita nel “Fedone” o ancora alle riflessioni sui riti funebri della Corsica proposte da W. G. Sebald ne “Le Alpi nel mare” (Adelphi). Ma il suggeritore principale (soprattutto nella conclusione) di quest’“Orestea”, nuova e antica, è Emanuele Severino che, tra l’altro, nel 1985 ne curò una versione per Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah. La trilogia, nel trattamento del grande filosofo neo-parmenideo (da poco 90enne), diventava emblema dello scivolamento occidentale nella follia, che ci porterebbe a credere che tutto (noi inclusi) provenga dal niente e sia destinato a tornare nel niente. La festa a cui sono invitate alla fine dell’”Orestea” le vendicative Erinni, diventate ormai benevole Eumenidi dopo l’intervento di Atena a favore del matricida Oreste, rappresenta proprio l’aberrazione che ci fa credere di essere “povere cose” bisognose di riparo e ci fa gioire quando pensiamo di aver trovato la salvezza. In realtà la morte non esiste: inquietati e spaventati da ciò che semplicemente non è, siamo infelici perché, come nel buddhismo, non sappiamo di essere salvati da sempre.
Lo spettacolo, dopo un tour che l’ha portato a Roma, Parigi, Mülheim an der Ruhr, Prato e Padova, è arrivato – dal 26 al 31 marzo – anche al Teatro Astra di Torino, dove è apparso notevolmente alleggerito dei difetti che avevano creato una certa perplessità in parte del pubblico al debutto veneziano, avvenuto senza un vero e proprio rodaggio e in più in un contesto di grandi aspettative. Il lavoro è molto lungo (4 ore circa) ma spesso assai suggestivo, anche grazie ai suoni elettronici (bellissimi) di Marco Martinuz, ai costumi dal gusto antico disegnati dallo stesso Simone Derai e realizzati da Serena Bussolaro e Christian Minotto (splendide le maschere che coprono la sola bocca degli attori) e ai potenti video realizzati anche questi da Derai (mappe antiche che da bruciate tornano integre, alcuni dialoghi cruciali, l’immancabile macello, tosature di pecore, visitatori del Museo archeologico di Olimpia, la stampa in 3D della riproduzione di una statua greca).
C’è ovviamente Eschilo. Soprattutto l’”Agamennone”, mentre delle “Coefore” restano alcune sezioni nella seconda parte (“Schiavi”) e delle “Eumenidi” pressoché nulla nella terza (“Conversio”).
Ci sono i fuochi che segnalano la vittoria degli Achei a Troia.
C’è la voce del messaggero (Pierdomenico Simone) che annuncia il ritorno di Agamennone, registrato come per un comunicato radio, dove l’ufficialità si alterna alla descrizione della realtà spietata della guerra, con tanto di fuori onda che rivela a sorpresa l’inconsistenza di quel successo bellico.
C’è l’evocazione del sacrificio di Ifigenia, grazie all’impressionante riproduzione di una pecora morta da cui vengono tratte ossa per una sepoltura in extremis e al doppio canto dal vivo del primo dei “Lieder per i bambini morti” di Gustav Mahler.
C’è la fascinosa vestizione di Clitemnestra (Monica Tonietto) per il ritorno di Agamennone (Sebastiano Filocamo, nome storico del teatro e del cinema italiano), accolto con una cerimonia dall’arcana aura sacrale e poco dopo ucciso dalla doppia vendetta della moglie (per la morte della figlia) e del suo amante Egisto (Benedetto Patruno), il figlio di Tieste sopravvissuto all’orribile strage ordita dal padre di Agamennone, Atreo.
C’è la profezia di Cassandra (recitata in armeno dall’emozionante Gayané Movsisyan), che annuncia – non creduta – l’imminente esplosione del male di cui lei stessa sarà anche vittima.
C’è il nuovo regime tirannico che trasforma gli abitanti di Argo in schiavi.
C’è l’incontro tra Elettra e il fratello Oreste (Marco Ciccullo), tornato per vendicare il padre.
C’è – a fare da coro, quasi onnipresente, inappuntabile – Marco Menegoni che sembra commentare le azioni con le parole di Quinzio, Sebald, Severino e molti altri ancora.
Il lavoro nel corso delle repliche ha acquisito la fluidità che, in certi momenti, a Venezia non aveva ancora. Gli stessi giovani attori che accompagnano i veterani ora posseggono maggiore scioltezza e sicurezza di sé. Eppure questa “Orestea” – ieratica e per certi versi statuaria – appare priva di quella compattezza e soprattutto di quel pathos ininterrotto che possedevano spettacoli, pur coltissimi e per certi versi iper-cerebrali, come “Virgilio brucia” e “Socrate il sopravvissuto”.
Certi momenti sono stupendi, altri meno (come alcuni movimenti un po’ “sporchi” o il canto corale finale non perfetto, come dovrebbe essere invece in una scena così aulica e straniante). Ma soprattutto sembra mancare qualcosa. Forse c’è un po’ troppo, un po’ troppo di tutto e non è solo una questione di durata. Magari è lo stesso sbocco neo-parmenideo della drammaturgia che fa sì che il dramma si stemperi e si dissolva progressivamente, dato che il divenire non è che “l’entrare e l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire” e tutto ciò che apparentemente scompare “continua a esistere, eterno, come un sole dopo il tramonto” (Severino, “La strada”, Rizzoli).
Comunque sia, di spettacoli non perfetti così ne vogliamo vedere ancora moltissimi.

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