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Giovedì 28 marzo 2024

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Visto con voi: “Les trois sœurs” di Simon Stone

Il regista australiano mette in scena a Torino il capolavoro di Cechov, riscrivendolo dall’inizio alla fine e creando un capolavoro assoluto

La Guida - Visto con voi: “Les trois sœurs” di Simon Stone

Immagine panoramica della casa a due piani rotante allestita in scena, nelle cui stanze recitano gli attori

È difficile non amare Cechov, anche se i suoi drammi sembrano – ad uno sguardo superficiale – lunghi, privi di azione e persino troppo parlati. Quando li scrisse, nella Russia zarista a cavallo tra Otto e Novecento, la sua fu una scelta rivoluzionaria: raccontare a teatro il presente, il quotidiano, le sfumature apparentemente insignificanti dell’esistenza, nel modo più naturale possibile. Determinante per la sua consacrazione fu, come si sa, l’incontro con Stanislavskij, uno che, la realtà, voleva ricrearla sul palcoscenico, spingendo i suoi attori ad immedesimarsi con i personaggi in modo radicale. Cechov, d’altronde, non smette mai di esser messo in scena, facendo scoprire ogni volta nuove ragioni per sentirlo attuale. L’avete visto per caso quel formidabile film di Louis Malle, “Vanja sulla 42° strada” (1994), dove un gruppo di attori recitava “Zio Vanja” in un teatro newyorchese abbandonato, senza costumi e con i copioni in mano? Basterebbe quell’esempio a dimostrare la modernità assoluta del Nostro.
È stata, però, una sorpresa per molti andare al Teatro Carignano di Torino, dal 23 al 26 gennaio, e scoprire un nuovo modo di confrontarsi col drammaturgo russo. Andava, infatti, in scena “Les trois sœurs” dell’australiano Simon Stone, diventato in pochi anni uno dei nomi di punta del teatro internazionale pur avendo solo 33 anni. Realizzato originariamente in tedesco per lo svizzero Theater Basel e ora riproposto in francese da Odéon Théâtre de l’Europe, lo spettacolo è in realtà non una semplice attualizzazione di “Tre sorelle” di Cechov, ma una sua riscrittura integrale, secondo l’approccio ai testi che hanno reso noto Stone, fin dai suoi primi lavori con la compagnia da lui fondata – giovanissimo – a Sidney, The Hayloft Project.
Della storia di Irina, Olga e Mascia, che sognano invano di sfuggire alla staticità della provincia per andare a Mosca, resta la struttura di base, l’atmosfera malinconica e le dinamiche tra i personaggi. La Russia di fine Ottocento diviene la Francia di oggi, il villaggio lontano da tutto una casa di vacanze, dove le tre sorelle e il fallimentare fratello André (tossicodipendente, alcolizzato e ludopatico) si riuniscono (con compagni, amici, parenti) per disperdere le ceneri del padre, morto l’anno prima. La scenografia, davvero molto spettacolare, mostra una grande casa a due piani rotante, delle cui stanze si vede dinamicamente l’interno, come in una specie di “Grande fratello” teatrale. Una casa simile – tra l’altro – a quella usata da Stone nel suo “Ibsen Huis”, applaudito ad Avignone la scorsa estate.
Gli attori (magnifici) de “Les trois sœurs” si muovono tutto il tempo, seguendo una partitura perfetta, dentro l’abitazione mobile e nell’ideale giardino che la circonda, anche quando non sono protagonisti dell’azione che la regia in un dato momento mette in primo piano (gli interpreti sono tutti microfonati). Cuociono carne sul barbecue, si fanno la doccia, bevono (molto), fanno l’amore, azionano fuochi d’artificio (in una scena di pura poesia), parlano di Facebook e di siti di incontri, di veganismo, di Brexit, di immigrati, dell’ISIS e di Donald Trump, suonano il pianoforte e cantano (stupendo il canto corale di “Heroes” di David Bowie), progettano di visitare Berlino o di trasferirsi a New York. Con una naturalezza mozzafiato.
Mostrano allo stesso tempo, però, agli sguardi voyeuristici dello spettatore la loro generale infelicità e insoddisfazione, i loro guizzi di vita e le repentine ricadute, i rimpianti, le recriminazioni, gli egoismi, i segreti taciuti, provando il carattere profondamente cechoviano di questo copione pur totalmente nuovo.
Nel secondo atto il gruppo di personaggi si ritrova nella casa, sotto la neve, per cercare di festeggiare il Natale, mentre nel terzo l’occasione del ritorno è la necessità di svuotare tutto, in vista della vendita del cottage, fatta dal fratello per pagare i debiti di gioco. E’ soprattutto in quest’ultima parte che Stone inserisce elementi tratti da altre opere di Cechov: la vendita della casa appunto (da “Il giardino dei ciliegi”), una pistola che finirà per sparare (“Zio Vanja”) e un suicidio (come ne “Il gabbiano”), a cui gli spettatori assistono impietriti, mentre gli altri personaggi – ignari – continuano a impacchettare oggetti e portare via mobili.
Uno spettacolo dal realismo straordinario. Un capolavoro di cui sarà impossibile dimenticarsi.

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